Di solito, quando i livelli di ossigeno nel sangue diminuiscono a causa di un’infiammazione dei polmoni, l’anidride carbonica, il gas di scarico, aumenta. È questo aumento del livello di anidride carbonica che produce l’angosciante sensazione di affanno, di “fame d’aria”. Anche quando i livelli di ossigeno nel sangue (misurati da un misuratore della saturazione di ossigeno) sono scesi dal consueto SaO2 del 95-99%, fino a un livello di circa l’80% (che normalmente sarebbe considerato pericoloso per la vita), alcune persone infettate con il virus sembravano tranquille e non in affanno. Il fenomeno è diventato noto come “ipossia felice”.
La fisiologia di questa ipossia felice è stata spiegata osservando che, sebbene i polmoni del paziente COVID fossero talmente infiammati che l’ossigeno non poteva essere estratto verso il sangue ed erano quindi chiaramente ipossici, permaneva una buona eliminazione dell’anidride carbonica.
L’ipossia felice è stata anche associata a decessi dovuti a infezioni polmonari e polmoniti. Quando William Osler, uno dei fondatori del Johns Hopkins Hospital, nel 1892, descrisse una morte per polmonite come “amica dell’anziano”, si riferì all’ipossia felice (vedi il capitolo COVID-19). L’obiettivo, quindi, è di far sì che la morte per ipossia sia una morte felice. L’ipossia felice dipende dal fatto che i livelli di ossigeno cerebrale scendano a livelli letali, evitando al contempo un aumento dell’anidride carbonica ed i sintomi dolorosi ad esso associati.
L’interruttore cardiaco
L’ipossia ischemica provocata da un’interferenza con le funzioni del cuore raramente è pacifica. Un attacco di cuore, per esempio, porta il cuore ad essere improvvisamente incapace di pompare il sangue ed è spesso accompagnato da forti dolori al petto. Anche alcuni farmaci cardiotossici possono fermare il cuore e causare l’ipossia ischemica.