Molto diverso è il caso di un anziano o un malato grave che desidera predisporre un piano per il fine vita: un piano, cioè, che gli permetta di mantenere il controllo sui suoi ultimi giorni. Chi voglia prepararsi alla morte e non è depresso non dovrebbe essere considerato in termini psichiatrici.
Le scelte di fine vita e il ruolo delle cure palliative
Spesso gli oppositori del suicidio assistito sostengono che là dove le cure palliative sono accessibili e di qualità, i pazienti non hanno bisogno di chiedere un’assistenza al suicidio. Non è vero. Per capire questa affermazione, però, occorre inquadrare il settore delle cure palliative.
Le cure palliative sono state il primo ramo della medicina a spostare l’attenzione dalla logica del «curare a tutti i costi» per concentrarsi invece sul trattamento e sulla gestione dei sintomi (di pazienti affetti da malattie mortali). In questo senso, l’obiettivo delle cure palliative non è mai stata la guarigione del paziente, ma il controllo dei suoi sintomi: migliorare, cioè, la qualità della vita dei malati gravi e terminali.
Ad oggi, le cure palliative si sono dimostrate particolarmente efficaci nella terapia del dolore. Spesso si dice (forse esagerando) che la medicina palliativa possa lenire il dolore nel 95% dei casi. Ciò che invece si tende a tralasciare è la sua scarsa efficacia nell’alleviare altri sintomi comuni delle malattie gravi, come la debolezza, la nausea e l’affanno. O, semplicemente, nel garantire una buona morte.
Un caso in particolare ha fatto emergere più di ogni altro i limiti delle cure palliative: la tragica morte, nell’agosto del 2008, della scrittrice Angelique Flowers. Quando Angelique aveva quindici anni, le fu diagnosticato il morbo di Crohn. Il 9