Fu il cristianesimo a far sì che il suicidio, un tempo visto come l’atto di una persona responsabile, passasse a essere considerato una trasgressione delle leggi divine. La morte diventò una questione attinente alla volontà di Dio – non più a quella dell’individuo – e fu allora che si introdussero punizioni per chi tentava il suicidio. Se il tentativo di suicidio andava a buon fine, si puniva con multe e censura sociale la famiglia del reo.
Con l’ascesa della medicina moderna nel XIX secolo, il significato del suicidio cambiò nuovamente e la visione che si affermò allora continua a prevalere. Oggi si guarda al suicidio perlopiù come a una malattia. Se una persona vuole porre fine alla sua vita, vuol dire che è malata (soffre cioè di un disturbo psichiatrico, solitamente di depressione). Ne consegue che la contromisura più appropriata sia il trattamento medico (sotto forma di assistenza psicologica o cure antidepressive).
Noi di Exit International contestiamo l’idea del suicidio secondo la quale la decisione di morire è automaticamente collegata alla depressione e ai disturbi mentali. Pensiamo davvero che gli attentatori suicidi del Medio Oriente siano depressi? L’atto del suicidio deve essere osservato in relazione al contesto.
Ad esempio, una persona molto anziana che vede i suoi amici morire settimana dopo settimana (e probabilmente si domanda «sarò il prossimo?») avrà un punto di vista sulla morte molto diverso da quello di un giovane che ha tutta la vita davanti. Lo stesso vale per chi soffre di una malattia grave. L’atteggiamento di un individuo verso la morte deve essere compreso tenendo conto della sua situazione personale.
In stati come l’Oregon, dove il suicidio assistito è legale, i sintomi della depressione sono stati riscontrati nel 20% dei pazienti che hanno richiesto l’assistenza al suicidio (Battle, 2003). Uno studio australiano del 1998 riferisce che il 15% degli