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“Anche se aveva la cintura, probabilmente era circondato da persone che non avevano a cuore i suoi interessi”. Van Arsdale sostiene che per prepararsi ad affrontare Machida, Evans non ha fatto wrestling. “Guardatelo adesso e confrontatelo con quello che ha combattuto quella sera – invita Van Arsdale – Sono due persone diverse. Trovandosi di fronte Machida, oggi lo farebbe a pezzi. Garantito. Non abbiamo problemi a dargli una bella ripassata. Appena chiusa la gabbia, il nostro ragazzo è una vera minaccia”.


AMMIRIAMO IL LUPO SOLITARIO, ma siamo ben felici di tenerlo a distanza. Dopo la separazione da Greg Jackson, suo allenatore da molto tempo, per intraprendere la sua strada da solo insieme a Van Arsdale, forse è proprio la sua immagine di cane sciolto a impedirgli di conquistare i fan. E non è una novità, anzi è un atteggiamento le cui radici risalgono ai tempi in cui giocava a football per la scuola superiore Niagara-Wheatfield nello stato di New York. Nonostante abbia ricoperto ruoli importanti sia in attacco che in difesa, Evans sostiene che il football ha creato in lui una vera e propria avversione per le situazioni in cui il successo dipende anche da altri. “Gli sport di squadra non mi piacevano – spiega – perché sul campo non potevo controllare gli altri giocatori. Preferisco dovermela cavare da solo e, nel caso, anche perdere da solo. Voglio potermi guardare allo specchio e dire ‘Sono stato io a perdere’; questo posso sopportarlo”. Le MMA che, pur avendo alcuni aspetti degli sport di squadra non lo sono a tutti gli effetti, sembrano andargli a genio. Firmi per un combat- timento e ti prepari per mesi con la tua squadra, ma quando la porta della gabbia si chiude alle tue spalle, gli altri rimangono fuori. “Non vorrei mai combattere da solo – sostiene Evans – Ho bisogno dei miei allenatori, di gente che mi faccia sgobbare in palestra per dare il meglio in combattimento”. Nell’Ottagono, però, alla fine conta solo quello che sei riuscito a creare per te stesso. “Conosco certi fighter che sono delle macchine mortali, di quelli con cui è meglio non fare scherzi. In palestra sono delle bestie, ma quando arrivano in gabbia, circondati dal pubblico, sembrano destinati a rimanere incollati al sacchetto di carta per il vomito. Io non sono così”. In questo periodo, un pensiero costante per


Evans è suo fratello Lance, più grande di due anni, soldato di fanteria, che di recente è stato inviato in Afghanistan dopo una licenza speciale per vedere Rashad – “il piccolo di casa” – demo- lire Davis a Las Vegas. I due sono sempre in


di preparazione atletica si basa sulla simulazione di situazioni


di combattimento, specialmente per quanto


contatto via e-mail e Lance, pure lui ex combattente, lo aiuta a guardare le cose con un certo distacco. “È sempre nei miei pensieri – racconta Evans


– Dove sta lui si fa sul serio, e non c’è un arbitro che può fermare il combattimento. L’idea di perdere un combattimento mi rende nervoso, ma non è niente in confronto al rischio di perdere la vita o di tornare a casa con qualche grave forma d’invalidità fisica o mentale. Quando mi capita una giornata no o non ho voglia di allenarmi, penso a quanto dovrei essere felice e a quanto mio fratello sarebbe contento di essere al mio posto anziché correre rischi enormi dove sta adesso”.


Qui non si tratta solo di rivalsa. Ogni combattente UFC ha i suoi motivi per entrare nell’Ottagono e Evans non è certo l’unico a far leva su motivazioni familiari. Eppure, nonostante sia già stato dato per spacciato, ripetutamente liquidato come un fighter marginale e assolutamente inadatto a prestare il volto alle promotion, Evans è ancora qui e sta per affrontare il compito non indifferente di far crollare dal piedistallo Jones, atleta che molti considerano come la vera promessa di questo sport. Perché lo fa? “Sono un combattente – dice – e lo sono sempre. Non vinco mai perché sono più tecnico, e non sono neanche il più grosso o il più forte. Vinco perché combatto. È qualcosa che ho dentro e non si può misurare”. In previsione del match Evans-Jones che, considerati i loro trascorsi come compagni d’allenamento, è probabilmente il combattimen- to più interessante dal punto di vista emotivo di tutta la storia dell’UFC, Evans punta prima di tutto a smorzare la macchina pubblicitaria, almeno per quanto riguarda il suo ambiente e chi gli sta più vicino. Evans non vede Jon Jones come gli altri, e vuole mantenere quel tipo di prospettiva rimanendo fedele alle sue radici di lottatore, come s’intuisce anche dalla sua posizione accovacciata prima d’iniziare a combattere. “Inizio così per non dimenticare che sono un wrestler. È un movimento e anche un approccio mentale. Quando adotto la mia posizione di lotta, capisco con tutto me stesso che è solo un altro match”. Riguardo all’affetto dei tifosi, battere Jones


sarebbe indubbiamente un buon inizio, ma Evans sostiene che stavolta non conta più di tanto. “Non ho certo intenzione di concentrarmi su quello che la gente dice sul mio conto. Forse alla fine della mia carriera riconosceranno i miei meriti e diranno ‘Sei stato bravo’, ma io so benissimo di essere uno dei migliori di sempre, e per me questo è quello che conta”. M&F


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