This page contains a Flash digital edition of a book.
Maggio 2010

I RACCONTI DI “VECI E BOCIA”

... ma non chiamateci eroi...

Sergio Pivetta, nostro socio, è un reduce del Battaglione Piemonte che il 31 marzo del 1944 scalò di sorpresa il Monte Marrone vicino a Monte Cassino e difese le posizioni dal contrattacco tedesco. Questo fu un importante evento della Seconda Guerra mondiale perché fu il primo atto per forzare la linea Gustav. Sergio Pivetta è autore del libro “Una guerra da signori”, è direttore della rivista “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e ci ha cortesemente inviato questo bel testo che Vi proponiamo come testimonianza.

Alcuni anni or sono, in occasione d'uno dei raduni del btg. Piemonte, avevo co- nosciuto, alla Scuola Militare Alpina di Aosta, simpatizzando subito con lui, un ufficiale superiore che vi prestava ser- vizio.

E mi aveva colpito il tono più che ri- spettoso, quasi deferente, con il quale ci rivolgeva la parola: "Voi combatten- ti, voi che avete combattuto, io invece ... " E c'era, nelle sue parole, un'espres- sione quasi di rammarico per non aver "fatta la guerra".

Finché un giorno, non ricordo in quale occasione, gli replicai: "Ascoltami bene, Ezio. Noi la guerra l'abbiamo fatta chi perché di carriera, chi perché di leva, qualcuno anche da volontario, ma l'ab- biamo fatta soprattutto perché ci ha coin- volti in pieno per ragioni anagrafiche, a causa della nostra classe di nascita. Tu l'hai scansata perché sei nato qualche anno più tardi. Ma non devi fartene un cruccio. Sei un brillante ufficiale, oltre che esperto alpinista: se ti fossi trovato al nostro posto ti saresti comportato esat- tamente come noi.

O, probabilmente, anche meglio, perché la stoffa del comandante tu te la porti nel sangue".

Questo episodio mi è tornato alla men- te quando recentemente, a convivio, mi sono sentito definire - e non una volta soltanto - "eroe".

No, per favore, non chiamatemi "eroe". Non sono un eroe. Un ex-combattente, questo sì, e sono contento di aver fatta la mia parte, in guerra. Ma come tutti gli altri. Nessuno, dei nostri, si ritiene un "eroe". Nemmeno chi è stato deco- rato al valore.

Mi ricordo, è vero, di non essermi pre- occupato molto delle centinaia di cannonate che a Monte Marrone - quan- do ricevetti, la mattina di Pasqua del 1944, il "battesimo del fuoco" - mi fi- schiavano sopra la testa andando ad esplodere addosso ai tedeschi e di quel- le - poche, per fortuna – che scoppiava- no qualche decina di metri più dietro sulle nostre tende. Forse perché ero tut- to teso a scrutare il vallone dal quale i gebirgsjager - che nel settore tenuto dalla mia compagnia quella notte non si fe- cero vivi - potevano farsi sotto. Cerca- vo di ripararmi, questo è ovvio, ma mi tranquillizzava, lì accanto, nella posta- zione dov'ero di guardia, la presenza della "pesante", la mitragliatrice Breda 37.

La paura la provai invece qualche tem- po dopo quando, durante l'attacco al Balzo della Cicogna di Colle Altare, una raffica della loro mitragliatrice mi fi- schiò tutt'attorno alla testa. Istintivamen- te mi buttai dietro ad un riparo, dove

poco dopo mi raggiunse un portaordini: "Sergente, devi farti sotto con la tua squadra, il Capitano ti aspetta, è lì, 100 metri più avanti, dietro a quei sassi". "Va bene; avanti ragazzi, uno alla volta, a distanza, dietro a me". Ma le gambe non mi obbedirono. Rimasi inchiodato al ter- reno, come paralizzato. Ripetei l'ordine una, due volte. Ma inutilmente. Non riu- scivo a muovermi. Gli Alpini mi guar- davano, interrogativamente. Poi uno di loro, d'improvviso, si alza e scatta in avanti, seguito da un altro, poi da un terzo. E solo a questo punto, con uno sforzo sovrumano, riesco ad alzar- mi, li seguo, li sopravanzo.

Ma da quel momento, non ho più avuto paura. Se il battaglione avanzava, io mi muovevo con la mia compagnia. Se la mia compagnia attaccava, andavo all' assalto anch' io con la mia squadra, ma sempre, come mi avevano insegnato gli Alpini: cercando, se era possibile, di non espormi inutilmente.

Quando l'avevo fatto, la prima volta, uno dei miei "padri", un Sergente di quelli "con ... gli attributi" mi aveva subito bloccato con un cazziatone: "Tien giù quella testa, cretino, non fare l'eroe! Vuoi farti ammazza- re?" L'aveva detto, il capo pezzo artigliere alpino Accossato, qualcosa del ge- nere, in dialetto piemontese al Principe di Piemonte, quand'era venuto a farci visi- ta sul Marrone, in prima li- nea, a quota 1770. Aveva su- bito aggiunto, un bel: "Scusi monsù, mi scusi signore, ma non mi ero accorto fosse Lei", cui il Principe aveva a sua volta risposto ringraziando, sempre in piemontese: "Non se la prenda, non fa nulla. Grazie, anzi!" Così mi ave- vano insegnato a combattere gli Alpini del btg. Piemonte: obbedire agli ordini, andare avanti quando c'era da anda- re, ma senza sfidare, finché possibile, le mitragliatrici, senza gettarsi allo sbaraglio nei campi minati. Come fa- cevano spesso, invece, i Bersaglieri, ma ancora più i Parà della Nembo e gli Ardi- ti del Boschetti, lasciandoci sempre dei morti.

Morti eroicamente, forse, ma sacrificatisi, a volte, inutil- mente.

Ho preso parte anch' io, come tutti, a diversi assalti. Ma mi è sempre andata bene. Al Bal-

zo della Cicogna i Tedeschi, quando gli eravamo arrivati addosso, avevano smesso di sparare e ci avevano atteso con le braccia in alto. Poi, sulle colline di Iesi, il Ten. Morena aveva centrata con il primo colpo di mortaio la mitra- gliatrice che avrei dovuto neutralizza- re. E così altre volte.

Anche quando ho dovuto attraversare dei campi minati ho sempre avuta for- tuna. Andavo avanti per primo, con un po' di fifa ma anche molta prudenza, badando bene a dove mettevo i piedi, seguito dagli Alpini che, porconando di brutto, non mi mollavano mai. Era la loro maniera, sacramentando e mandandomi al diavolo, di protegger- mi "perché noi su quel campo non ci veniamo, ma lei da solo non la lascia- mo andare."

Una volta, in quel momento i tedeschi si stavano ritirando, mi venne in aiuto persino una bimba di 8, forse 10 anni: "Vieni con me soldato, seguimi, io co- nosco il sentiero dove non ci sono le mine".

Un'altra volta una pattuglia di polacchi, con tanto di cercamine, saltò in aria nella carrareccia sulla quale ero andato su e giù, avanti e indietro, con i muli, per al- meno due ore.

La guerra è anche questo. Fortuna. Tante cose, tanti episodi, non li ricordo più. Ho saputo, per esempio, da un li- bro pubblicato di recente, di aver preso

parte ad "accaniti scontri" dei quali non ricordavo proprio nulla.

Forse perché, appena era possibile, di solito verso sera, mi scavavo una fossa e dicevo agli Alpini: "Se attaccano, sve- gliatemi, se si limitano a tiri di artiglie- ria, lasciatemi riposare in pace" e mi mettevo a dormire di un sonno così pro- fondo che mi sono perso - pare - parec- chi cannoneggiamenti.

Ecco, questa è stata la mia guerra. Una "guerra da signori" perché si moriva soltanto se colpiti d'arma da fuoco, non anche di fame e di freddo come gli eroi, quelli sì, della ritirata di Russia. Guerra privilegiata la nostra, se voglia- mo. Anche se loro, i “tugnin”, avevano il mitra e noi Alpini (tranne gli esplora- tori) il vecchio 91 della prima guerra mondiale. Loro quella micidiale Caterina che sviluppava un fuoco d'in- ferno, noi il fucile mitragliatore Breda 30 che si inceppava sempre. Loro 1'88 e le Katiushe catturate ai russi, noi il vecchio 75/13, il mortaio da 81, effica- ce ad onor del vero e la "pesante", la Breda 37, lenta ma anch'essa precisa ambasciatrice di morte. Ma è andata bene lo stesso. Il nostro dovere l'abbiamo fatto. Nel nostro piccolo, anche noi abbiamo ono- rata la penna. Da Alpini, come tutti gli Alpini. Uomini veri, se volete. Ma non chiamateci "eroi".

Sergio Pivetta

Veci e Bocia - 5 Page 1  |  Page 2  |  Page 3  |  Page 4  |  Page 5  |  Page 6  |  Page 7  |  Page 8  |  Page 9  |  Page 10  |  Page 11  |  Page 12  |  Page 13  |  Page 14  |  Page 15  |  Page 16
Produced with Yudu - www.yudu.com